L'Olandese Volante del Mozambico


esercito alpini militari brigata armi guerra paceEro arrivato in Mozambico nel febbraio del 1994. La missione Onumoz volgeva al termine e i militari della Renamo e del Frelimo venivano raggruppati in aree denominate Assembly Area dove venivano loro ritirate le armi e ottenevano quanto promesso dai trattati di pace, in genere un sacchetto di riso, una somma in denaro e degli attrezzi per coltivare la terra.

Le Assembly Area erano degli enormi attendamenti gestiti dal personale Onu completamente disarmato. Non più di dieci, dodici persone di paesi diversi con l'ingrato compito di tenere sotto controllo dagli 800 ai 1200 miliziani.
I militari del Frelimo vivevano in quelle che definivamo tende, ma più che altro erano teloni verdi sospesi sopra pagliericci che contenevano gabbie di galline e uomini con abiti stracciati o vecchie divise che uscivano da 17 anni di guerra, alcuni dei quali rapiti da bambini allo scopo di combattere e che dopo tutto questo tempo aspettavano un futuro che forse non riuscivano neppure a immaginare. Ricordo un ragazzo che aveva lasciato casa da dieci anni, il quale mi confidò che non vedeva l'ora di tornare dalla moglie che da allora non lo aveva più visto ne sentito.

La gestione di questi attendamenti non era facile. Uno dei problemi maggiori era l'approvvigionamento dei viveri e dell'acqua, che male si legava con l'inedia e il nulla da fare degli ex soldati che vivevano nei campi, magari costretti lì da lungo tempo. Ben poco potevano i pochi disarmati militari dell'Onu quando più di mille persone decidevano che l'acqua era poca. Spesso scoppiavano delle rivolte e, dato il rapporto di forza e la presenza di grandi quantità di armi sequestrate all'interno dei container sorvegliati dal personale Onu, non era raro che i presentassero situazioni critiche e pericolose dove il contesto non era più controllabile.

In queste occasioni i militari del Frelimo si riappropriavano di parte delle armi, prendevano in ostaggio il personale Onu e, se nelle vicinanze c'era un villaggio, questo veniva letteralmente invaso e messo a ferro e fuoco. Le richieste durante queste rivolte riguardavano perlopiù l'approviggionamento di acqua, di cibo e raramente di denaro. In queste occasioni veniva quasi sempre allertato lo squadrone elicotteri del 4° raggruppamento Altair stanziato a Chimoio, che interveniva immediatamente. A volte l'intervento era limitato nel tempo e il trasporto dei materiali richiesti metteva fine alla rivolta. Altre volte invece la sommossa assumeva caratteri di guerra aperta e sfiorava spesso, anche per più giorni, il punto di non ritorno.

In questi casi gli alpini della Julia e lo squadrone elicotteri si rischieravano nelle vicinanze della zona critica per creare una cintura di sicurezza per contenere i rivoltosi e salvaguardare l'incolumità del personale Onu. La massima priorità consisteva nel riappropriarsi delle armi e portare subito lontano dai rivoltosi quelle ancora custodite all'interno del compound dell'Onu.

alpini esercito militari armi guerra brigata battaglioneLa mattina dell'11 marzo 1994 arrivò un ordine di missione alquanto strano, secondo il quale avremmo dovuto garantire la sicurezza della striscia d'atterraggio del compound di Villa do Save dove era scoppiata una rivolta particolarmente violenta. Lì si stava cercando in tutta fretta di evacuare il maggior numero possibile di armi per impedire ai guerriglieri di recuperarle. Una volta assicurata l'agibilità dell'area sarebbe partito un C-47 per imbarcare le armi.

A mia disposizione una squadra di sei alpini armati, non molto per 1.200 persone, ma sempre più che i soli quattro membri dell'Onu disarmati presenti in zona. Arrivammo in vista della striscia subito dopo l'alba ed effettuammo delle osservazioni preliminari rimanendo sulla sponda opposta del fiume Save, vicino a un grande ponte. Giudicata relativamente sicura la zona, ci avvicinammo in volo tattico sorvolando a bassissima quota l'area di atterraggio e il campo, al fine di non offrire un facile bersaglio a qualche male intenzionato. Era stato stabilito un contatto radio con il personale Onu all'interno del compound ma, per quanto ci era stato riferito, essi potevano essere controllati per cui decidemmo di non affidarci completamente le loro indicazioni.

Atterrammo sulla striscia in terra ormai in gran parte inghiottita dalla vegetazione a circa 200 metri dall'accampamento. Quello che notammo subito, e che avevamo notato anche durante il sorvolo, fu una gran folla urlante che gesticolava venendo verso di noi. Alcuni facevano gesti di minaccia imbracciando armi, improvvisando movimenti tribali, mimando l'atto di sparare, di lanciare sassi, insomma una situazione molto calda.

Scendemmo dall'elicottero per incontrare il responsabile del compound, un capitano dell'Esercito brasiliano rappresentante Onu. Mi disse che potevamo spegnere e ci disse che, nonostante l'atteggiamento dei miliziani, la rivolta si era conclusa e tutti i capi guerriglieri erano stati uccisi o messi in fuga nel bush circostante dove erano stati udii diversi scoppi di mina antiuomo. A questo punto la nostra missione era garantire la sicurezza per l'atterraggio del C-47 e, dopo le rassicurazioni del capitano, inviammo l'ordine di decollo al comando di Chimoio. Nell'attesa il brasiliano ci descrisse meglio la situazione, che peraltro era abbastanza chiara.

Le tende dell'Onu, quattro in tutto, erano circondate da filo spinato all'interno del quale alcuni guerriglieri armati (e non dovevano esserlo) "garantivano" la loro sicurezza tenendo lontani gli altri guerriglieri. A detta del capitano, in tutto il compound aveva girato una gran quantità di alcool dall'inizio della rivolta e la situazione, pur calma al momento, andava peggiorando per cui era necessario far arrivare truppe. Questa necessità era data anche dal fatto che informatori interni avevano riferito dell'intenzione di alcuni guerriglieri di riappropriarsi di tutte le armi e abbandonare il compound, tanto che si ipotizzava che alcuni armati di mitragliatrici pesanti fossero già attestati sopra il ponte sul fiume Save pronti a respingere qualsiasi tentativo dell'Onu di disarmarli.

alpini esercito militari guerra armi missioni reggimentoSollecitato dal capitano, che era in un comprensibile stato di agitazione, telefonai al comando e parlai con il generale comandante, traducendo i timori e le sue richieste. Rassicurato da quanto detto dal generale, il capitano volle comunque che andassimo al vicino villaggio a vedere cosa avevano fatto nella notte i guerriglieri che avevano abbandonato il campo. Salimmo sulla Nissan dell'Onu e girammo per la strada che costeggiava il villaggio. Tutte le capanne distrutte, donne impaurite. Seduti su una panca, di fronte a una sfilza di bottiglie di birra vuote, c'erano sei o sette guerriglieri armati fino ai denti e il capitano volle che li fotografassi.

Mi disse: "Quelli sono i capi della rivolta, così ora sanno che l'Onu conosce i responsabili". Mi sentii morire, mi immaginai steso a pochi metri da una Nissan bianca sulle sponde del rio Save, freddato da quei simpatici individui solo per aver fatto finta di fotografarli. Comunque, forse grazie alla birra, accennarono solo a qualche gesto con gli Ak-47 cinesi e noi continuammo fino al ponte dove il capitano ci fece notare il posto di polizia: un ufficio con una sbarra, completamente distrutto e incendiato.

Tornammo al campo, richiamati dalla radio che ci comunicava il contatto con il C-47. Poco dopo udimmo l'inconfondibile rombo dei due motori stellari e vedemmo la leggendaria sagoma del Dakota volare sul filo degli alberi mentre si apprestava a sorvolare la striscia di terra. Atterrò in pochissimo spazio. Una scritta nera sulla fusoliera bianca (Interocean), le ali metallizzate, una cosa fantastica.

Dal finestrino si affacciò un pilota dall'apparente età di settanta anni (accertammo poi che quella era l'età reale) il quale ci salutò e sporse dall'abitacolo un Gps portatile. Iniziò, con l'arrivo dell'aereo, la seconda fase della giornata, ovvero le trattative tra comandante dell'aereo e capitano dell'Onu riguardo a quante armi imbarcare. Il capitano sosteneva che la società veniva pagata a viaggi, per cui i piloti tendevano a partire sempre leggermente sotto carico massimo. Da pilota mi sentii però di dar ragione al comandante il quale obbiettava limitazioni di peso massimo al decollo per quella determinata pista e non aveva assolutamente torto.

Aprimmo i container e iniziammo a radunare le armi, che venivano registrate su di un elenco e quindi imbarcate su due Nissan per essere portate all'aereo. A questa operazione assistevano ovviamente i guerriglieri in rivolta i quali non sempre erano d'accordo sulla scelta delle armi da portare via e manifestavano il loro dissenso con lanci di pietre e bastoni. Tra di esse la maggior parte erano Ak-47 e Rpg ma ricordo anche un cannoncino abbastanza pesante che, per essere imbarcato, richiese una dose di diplomazia degna del miglior ambasciatore.

Per quanto ne sapevo, a caricamento avvenuto, la mia missione era terminata, ma il comandante dell'aereo richiedeva una scorta in volo fino al punto d'atterraggio, Chimoio, a circa novanta minuti di volo. Un elicottero che scorta un aereo non credo sia cosa prevista da nessun manuale e tecnicamente presenta delle difficoltà "aerodinamiche" che vanno oltre la buona volontà dei piloti. Manuali alla mano, ci mettemmo seduti su di un tavolo e scoprimmo che la sua velocità di stallo era molto vicina alla mia velocità massima. Avremmo fatto il volo all'interno del piccolo margine che i due grafici delle prestazioni di volo in crociera avevano in comune.

Decollammo prima noi con l'AB-205 per garantire la sicurezza della zona e quindi iniziammo a circuitare sulla verticale della pista. Il C-47 effettuò un contropista rullando fino in testata, si spostò leggermente a sinistra per ruotare di 180 gradi. Ruotò facendo compiere alla coda un cerchio sopra gli arbusti per allinearsi alla pista e si fermò. In elicottero eravamo pronti a tuffarci all'inseguimento cercando di cogliere l'attimo del primo movimento per cercare di essere già in formazione alla fine della sua corsa di decollo. Se avessimo tardato non lo avremmo più potuto raggiungere e saremmo stati costretti a un inseguimento a distanza. Ultima verifica agli strumenti, in posizione, un ultimo sguardo per controllare il C-47 ancora in testata pista e … il pilota era sceso.

Qualcosa non andava. Il comandante del velivolo era a circa venti metri d'avanti all'aereo e sembrava guardare sconsolato un arbusto che gli occludeva la corsa di decollo. Atterrammo lì vicino ed egli ci disse che in atterraggio non aveva avuto bisogno di tutta la pista, ma per un decollo a pieno carico non ne poteva fare a meno.

L'Africa è un territorio ostile e io avevo sopportato le prese in giro dei colleghi per ben due mesi solo perché andavo in giro con una robusta accetta russa nel portacasco. Grazie alla mia accetta, un alpino ripulì la pista da ogni eventuale ostacolo, maledicendomi a ogni colpo, ma da alpino e completando il lavoro in brevissimo tempo. Ripetemmo le predisposizioni per il decollo e in volo potemmo osservare quell'aereo - uscito magicamente da chissà quale epoca - accelerare, tirare su il ruotino di coda mentre la pista sembrava sempre più incredibilmente corta, riabbassarlo impercettibilmente e alzare il muso sfiorando gli alberi che delimitavano la pista, continuando a guadagnare centimetri preziosi con gli alberi che sembravano fargli da cuscino, retrarre quel carrello fatto di tubi incrociati e ruote a palloncino e finalmente staccarsi dal bush africano con il muso puntato a Chimoio.

Noi eravamo lì, gregari di sinistra, un'emozione indescrivibile. Il rombo dei motori stellari che riusciva a vincere il flappeggio del povero 205 stabile alla sua massima velocità, 124 nodi, e quel personaggio d'altri tempi, illuminato dal sole africano ormai basso, che ogni tanto tirava fuori una mano dal finestrino e ci salutava. Avrei pagato oro per essere lì in quel momento e c'ero. Dopo novanta minuti in formazione atterrammo a Chimoio e io ebbi paura che il 205 facesse la fine della macchina dei "Blues Brothers" nel noto film, ovvero si smontasse una volta al suolo. Lo sottovalutavo. Due mezzi storici avevano volato insieme in uno scenario che ci aveva regalato un tramonto fantastico per completare con successo una missione degna di "Air America".

A terra, io ed il Comandante del C-47 ci stringemmo la mano e nacque un'amicizia che durò per tutta la missione. Dovunque andassi trovavo lui e il suo vecchio Dakota, tanto che mi ero quasi convinto fossero una leggenda, una sorta di Olandese Volante in versione africana. Il C-47 non uscì indenne da quel decollo. La rotazione per allinearsi alla pista gli aveva strappato parte del rivestimento dell'alettone dell'ala sinistra e del piano di coda sinistro, ma continuava ugualmente a volare come il suo anziano pilota.

Scritto da: Alessandro Fantato (ex Sergente Maggiore dell'Aviazione)

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