Era dicembre del 1992, quasi Natale,
ed io, insieme ad altri ufficiali del
Gruppo Tattico Aerotrasportabile
“Susa” mi trovavo ad Heidelberg, in Germania
per le riunioni preparatorie alle
esercitazioni annuali della NATO Allied
Mobile Force (AMF) che il “Susa”, con il
contingente “Cuneense”, svolgeva in Norvegia,
Turchia e in Danimarca. Quell’anno
il “Susa” si sarebbe dovuto schierare in
Danimarca, ma un ordine tanto perentorio
quanto inatteso ci avrebbe fatto
cambiare programma: dallo Stato Maggiore
dell’Esercito giunse in Germania la
comunicazione di rientro immediato in
Italia perché a breve sembrava saremmo
dovuti partire per una missione in terra
lontana. Quale non si sapeva e si pensava
alla Somalia.
Così, rientrando in Italia,
cercammo all’aeroporto notizie e informazioni
del Corno d’Africa. Ma non era la
Somalia. La destinazione sarebbe stata
più a Sud, molto più a Sud: il Mozambico,
nel contesto della missione sotto l’egida
dell’ONU denominata United Nations
Operation in Mozambique (ONUMOZ).
Il “Susa” era addestrato ad essere impiegato
in ambienti particolarmente rigidi,
come in Norvegia, dove la temperatura
era spesso a –40°, ma per noi non sarebbe
stato – e non fu – un problema: se sei
preparato per i –40° dell’Artico, sei in
grado di fare bene anche ai +50° dell’Africa
australe.
In Italia, proprio nel periodo di Natale, la
preparazione prese un’accelerazione che
lasciava pensare ad una velocissima partenza.
Mezzi verniciati di bianco, autoblindo
6614 dell’Esercito e dell’Aeronautica
che giungevano su grandi carri rimorchio
a Pinerolo, tiri di addestramento
con armi controcarro APILAS, mai prima
utilizzate.
Il battaglione − era un grosso battaglione
− era pronto. Poi giunse l’ordine – forse
dovevamo aspettarcelo – che solo chi lo
desiderava avrebbe preso parte alla missione.
Così, con un certo dispiacere per il rischio
di dover smembrare reparti disciplinati
ed addestrati, ordinammo l’adunata
per parlare con gli alpini di leva e chiedere
chi volesse partire. Al “rompete le righe”,
dopo aver constatato che i “volontari”
erano in numero adeguato – non
avevamo dubbi che sarebbe stato così –
ci rendemmo conto che, in maniera quasi
inconsapevole, sotto i nostri occhi si era
materializzato un cambiamento epocale:
non eravamo più un esercito di leva, bensì
l’embrione di un esercito professionistico.
Veri e propri “pionieri” che, con la
loro volontaria adesione alla missione in
Mozambico, sarebbero stati protagonisti
di una delle missioni di pace considerate,
ancora oggi, di maggior successo.
È con questo ricordo nel cuore che da
Comandante pro-tempore del battaglione
“Susa” allora e da Capo di Stato Maggiore
dell’Esercito oggi, sento il dovere
di condividere e di plaudere all’iniziativa
di celebrare il ventennale dell’inizio di
quella indimenticabile missione nel contesto
delle manifestazioni connesse alla 86a Adunata nazionale di Piacenza.
La missione “Albatros”, questo è il nome
che l’operazione ONUMOZ assunse
per le Forze Armate italiane, nasceva a
seguito della firma degli accordi generali
di pace firmati a Roma tra il governo del
Mozambico e la Resistenza Nazionale
Mozambicana (RENAMO), pazientemente
mediati dalla Comunità di Sant’Egidio
e dal Governo italiano. L’obiettivo degli
accordi era quello di porre fine alla lunga
e devastante guerra civile che affliggeva
il Mozambico a seguito del conseguimento
dell’indipendenza dal Portogallo
nel 1975. Come parte degli accordi, il
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite
decretava lo schieramento di forze internazionali
nell’ambito dell’operazione
ONUMOZ allo scopo di supportare il
cessate il fuoco, di monitorare il processo
di disarmo, smobilitazione e reintegrazione
dei combattenti e di facilitare
lo svolgimento di elezioni democratiche.
Si trattava di un compito impegnativo,
anche in considerazione del fatto che
operavamo in un contesto ambientale
difficile e assolutamente inedito per
truppe da montagna. Ma, per la sua consistenza
e grazie allo straordinario livello
di efficienza operativa e logistica dimostrato,
il Contingente Italiano assunse
ben presto il ruolo di “forza di riferimento”
con funzioni di supporto logistico e
sanitario a favore di tutte le Forze ONU
presenti nella regione. Agli alpini della
missione “Albatros” e, con essi, ai colleghi
non alpini dell’Aviazione dell’Esercito
e delle Trasmissioni, era stata assegnata
la responsabilità della regione centrale
del Mozambico, l’area di maggiore importanza
strategica del Paese, con il
compito di garantire il disarmo dei combattenti,
provvedere alla formazione
delle forze armate regolari locali, assicurare
la scorta ai convogli, la distribuzione
di aiuti umanitari e, soprattutto, il controllo
del cosiddetto “corridoio di Beira”,
una linea di comunicazione che, partendo
dal porto di Beira, attraversava la pianura,
saliva in montagna e da Chimoio –
futura base principale del nostro contingente
– proseguiva fino allo Zimbabwe.
Il
corridoio era costituito da tre linee di
comunicazione parallele, tutte vitali per
i collegamenti tra lo Zimbabwe e il mare:
una strada asfaltata, una ferrovia a scartamento ridotto ed una pipeline per il
pompaggio del petrolio dal porto di Beira,
attraverso la stazione intermedia di
Maforga fino allo Zimbabwe. Una fascia
larga da 500 metri ad alcuni chilometri,
che divenne responsabilità operativa degli
alpini italiani.
Si trattava di compiti che oggi qualsiasi
comandante militare considererebbe
“normali”, ma non dobbiamo dimenticare
che nel 1993, fatta eccezione per la significativa
esperienza del Libano nel
1982 e nel Kurdistan irakeno nel 1991,
eravamo ancora agli albori delle operazioni
internazionali e gli eserciti occidentali,
incluso quello italiano, erano
ancora addestrati, preparati ed equipaggiati
in funzione del paradigma vigente
nella Guerra Fredda, cioè di un conflitto
convenzionale tra forze con caratteristiche
e capacità simmetriche (Eserciti
contro Eserciti).
Una volta deciso il dispiegamento in ambito
UN del contingente italiano su base
Taurinense in Mozambico, cominciammo
il trasferimento nel marzo del 1993. Quel
mese, che ricorderemo sempre per le
lunghe nottate di veglia sui moli del porto,
dormendo per terra, in aree insalubri
e tormentati dalle zanzare, fu senz’altro il
periodo più duro dell’intera missione.
Atterrato all’aeroporto di Beira alle nove
del mattino, con un riverbero che infuocava
la pista, le prime immagini erano di
una povertà assoluta: bidonville cresciute
a dismisura intorno alla città, unico riparo
per i profughi della guerra; e poi,
bambini di strada, strade sconnesse, palme,
capanne tra stagni e paludi, caldo
asfissiante. Poi l’Africa, lasciato alle spalle
il degrado di Beira, cominciò a presentarsi
in tutta la sua entusiasmante bellezza.
Colline a perdita d’occhio, luci accecanti,
colori vivaci, villaggi di capanne incastonati
su colline lussureggianti. Alla
sera fummo a Chimoio: non c’era ancora
nulla sul posto, a pochi chilometri dalla
città, dove doveva sorgere la nostra base,
solo qualche tenda. Ci sedemmo in terra
a mangiare qualche scatoletta delle nostre
razioni da combattimento, mentre in
lontananza si sentivano i tamburi. La notte
ci colse all’improvviso: una notte scura
e impenetrabile che, a differenza dei
tramonti sulle nostre Alpi, precipita immediatamente,
senza preavviso.
Seguirono mesi e mesi di spostamenti
continui lungo il corridoio, cercando di
dare sicurezza non solo al movimento
merci, ma anche alla popolazione. I compiti
svolti dai reparti del Susa e dalla
Compagnia Alpini Paracadutisti che rafforzava
il battaglione erano numerosi.
Scorta diretta dei convogli ferroviari con
personale imbarcato sui treni, poi scorte
indirette con pattuglie motorizzate collegate al treno. Presidio dei punti sensibili,
in particolare la raffineria dell’oleodotto
a Beira e la stazione di pompaggio
di Maforga (il primo, luogo malsano e paludoso,
il secondo, luogo bellissimo tra i
boschi di eucalipti). Inoltre, scorte stradali
a convogli di aiuti, posti di blocco,
pattugliamento mobile, distribuzione di
aiuti umanitari, rifornimento con elicotteri
di pattuglie avanzate, occupazione
preventiva di aree a mezzo di elitrasporto
e pattugliamento aereo, attività di
sorveglianza e di prevenzione. Insomma,
i nostri bravi alpini non avevano da annoiarsi.
Ma non devo neppure dimenticare le
unità di supporto logistico. Prima di tutto,
il battaglione logistico, comandato
dall’allora ten. col. Porrazzo, ora generale
a tre stelle, mio grande amico anche se,
secondo me, le pizze venivano distribuite
più spesso nel suo accampamento che
nel mio. Ma lui ha sempre garantito il
contrario. Degli elicotteristi dell’AVES ho
già parlato, senza di loro non avremmo
avuto il successo che poi si è verificato.
Infine il Comando del contingente, retto
nell’ordine dal generale Fontana prima e
dal generale Mazzaroli poi, con alle dipendenze
il colonnello Baudissard per la
Taurinense e il colonnello Zambelli per
la Julia.
Di giorno in giorno, mentre le nostre pattuglie
operavano senza sosta, ci rendevamo
conto che il numero delle persone
per strada andava pian piano aumentando
e i campi ricominciavano a essere
zappati e coltivati. Ma il nostro successo
non era solo l’aver impedito l’assalto ai
convogli, aver salvato dei miliziani dal
linciaggio o aver sventato qualche furto:
il vero successo era il sorriso che la gente
comune ci riservava al nostro passaggio.
Gente che, forse, non sapeva nemmeno
perché ci fossero in circolazione
quei blindati dipinti di bianco e quei soldati
con il casco blu e la penna, ma sentiva
che, da quando eravamo lì, poteva
veramente sperare in qualcosa di meglio.
Quando tornammo in Italia, a bordo di
un aereo delle linee mozambicane, avevamo
tutti un groppo alla gola. Il rimpianto
delle emozionanti notti nell’emisfero
australe – notti stellate con un cielo
vicinissimo che quasi potevi toccarlo
– era palpabile ed eravamo tutti perfettamente
consapevoli, come ho già detto
in altre occasioni, di aver contratto il
“mal d’Africa”.
Anche in quella circostanza e come di
consueto, gli alpini della “Taurinense” e
della “Julia” che si avvicendarono nella
missione “Albatros”, portarono a termine
il loro mandato in maniera esemplare fedeli
al motto del mio glorioso ex-battaglione:
“A Brüsa suta ‘l Süsa”. Essi seppero
interpretare perfettamente lo spirito di
una missione nata sotto il segno dell’incertezza,
ma preparata e condotta con
meticolosa perizia, con la tenacia e la
determinazione di quei meravigliosi volontari
di leva che, con il loro operato,
hanno contribuito a restituire la speranza
ad una nazione.
Gli alpini non si fermano mai. Gli alpini
della missione “Albatros” sono stati i
testimoni della rinascita di un paese che
ha compiuto sotto i loro occhi – lasciatemelo
dire con una punta di orgoglio,
sotto i nostri occhi – i primi passi verso
una vita di pacificazione e democrazia.
Ma chiamare quei ragazzi “testimoni” é
assolutamente riduttivo: la conoscenza
del territorio e il contatto quotidiano
con la gente hanno trasformato, giorno
dopo giorno, i nostri alpini da semplici
testimoni a protagonisti impiegati in prima
persona e coinvolti, anche emotivamente,
nelle speranze e nelle attese della
popolazione. Gli alpini hanno cambiato
il Mozambico, ma allo stesso tempo il
Mozambico ha lasciato qualcosa in
ognuno di loro.
Proprio questo “qualcosa dentro” e la
voglia, tipica delle “penne nere”, a voler
sempre fare più di quanto chiesto, hanno
spinto gli alpini di “Albatros” (e altri volontari
e volontarie) a ritornare in Mozambico,
in occasione del decennale
dall’inizio della missione, per realizzare a
Lalaua (provincia inclusa nell’area di responsabilità
italiana durante l’operazione)
alcuni progetti di ricostruzione. Al
termine dei lavori, gli alpini hanno consegnato
alle autorità mozambicane un
collegio per ragazze, un centro nutrizionale
e di accoglienza per bambini sottonutriti
e un centro di alfabetizzazione e
promozione della donna, iniziative che,
certamente, rendono assoluto onore all’Associazione
Nazionale Alpini e all’Italia
intera.
Rivediamoci a Piacenza. Oggi, per uno
strano scherzo del destino, in analogia a
quanto avvenuto vent’anni fa in Africa,
gli alpini della “Julia” stanno ultimando il
loro schieramento in Afghanistan per avvicendare
i colleghi della “Taurinense”.
La missione in Mozambico ha dimostrato
chiaramente che i soldati italiani sono in
grado, meglio di altri, di adattarsi con efficacia
e tempestività a compiti “nuovi”
interpretando in maniera esemplare il
proprio ruolo nei diversificati scenari
operativi in cui sono chiamati ad operare
e ingenerando una perfetta sinergia tra i
principali fattori di successo di una missione
di pace: diplomatico, militare,
umanitario e di ricostruzione. “Albatros”
ha portato all’Italia un prestigio e una visibilità
a livello internazionale che non
avevano potuto trovare piena espressione
nel contesto delle rigide logiche imposte
dalla Guerra Fredda.
In conclusione, quella missione ha rappresentato
uno dei momenti più significativi
della mia carriera e mi ha permesso
di accumulare un bagaglio di conoscenze
che si sono rivelate fondamentali
per affrontare con successo le successive
sfide professionali. Sotto il profilo umano,
non c’è alcun dubbio che quella
esperienza mi ha lasciato in eredità un
patrimonio di legami fortissimi con gli
uomini con i quali ho condiviso quegli
intensi mesi in operazione. Sono vincoli
indissolubili, formatisi mentre facevamo
qualcosa di importante in un paese tanto
splendido quanto sfortunato.
E poi, poi c’è il mal d’Africa. Il sottile rimpianto
che ti accompagna e che traspare
quando ricordi quei giorni o ne parli con
un collega che era con te. I nostri grandi
campi bianchi, una luce intensa nella savana,
il rifugio al termine del pattugliamento.
Chi non ha mai visto l’invasione delle cavallette
forse avrà difficoltà a capire. I
bambini mozambicani ne erano ghiotti,
noi meno perché erano dappertutto.
Qualcuno si procurò delle iguana da
mettere in tenda perché mangiavano le
cavallette. Solo che poi l’invasione delle
cavallette è finita ed erano rimaste le
iguana, bruttissime anche se simpatiche.
L’Africa! Bisogna esserci stati almeno una
volta per capirla. Allora quei profumi,
quelle immagini, le porterai sempre nel
cuore.
Per questi motivi ritengo lodevole l’iniziativa
di celebrare il ventennale − ricordando
e commemorando il tenente Fabio
Montagna ed il sergente maggiore
Salvatore Stabili, caduti il 25 novembre
1993 nel cielo del Mozambico − di quella
riuscita operazione proprio in occasione
della nostra prossima Adunata nazionale
di Piacenza. Oltre alla mostra con mezzi,
materiali e fotografie della missione,
splendida é l’idea di creare per la sfilata
di domenica il sottosettore “Albatros”
dove gli alpini che presero parte alla missione
sfileranno con i comandanti di allora.
Io sarò lì con voi, e per me sarà un immenso
piacere poter riabbracciare quei
“giovani alpini” che ho visto diventare
“uomini” e che ora, dopo vent’anni, rivedrò
da “veci” anche se mi piace pensare
che sono e rimarranno per sempre “i miei
ragazzi”… gli alpini di “Albatros”.